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Quel profumo di arbusti di timo

Quel profumo di arbusti di timo
La Masseria Radogna nei ricordi della signora Rita D’Amato
di Francesco Gatti

Anni fà , ho avuto il privilegio di conoscere la signora Rita D’Amato, figlia di Teresa Radogna, ultima discendente della famiglia che ha dato il nome alla Masseria.
E’ stato possibile, quindi, ricordare quegli anni attraverso la testimonianza di chi li ha vissuti in prima persona, anni di una Murgia antica, a misura d’uomo e per cui l’uomo ancora nutriva rispetto.
Tornare a rivivere, con lo sguardo della memoria, i momenti della sua infanzia e giovinezza, ha illuminato i suoi occhi di un riverbero di felicità.
Ed è stato tutto un fluire di ricordi.
Il suo primo rammarico è quello di non aver mai fatto delle fotografie che le ricordino quei giorni.
La famiglia trascorreva le giornate nella Masseria, tutti gli anni, da maggio a settembre. Arrivavano con la carrozza fino ai “Tre Ponti” (al km 583 della via Appia) e proseguivano la salita che porta sulla Murgia a piedi. La strada era “tutte pietre” e il paesaggio murgiano di una bellezza ancora incontaminata.
In quella casa la madre, Teresa, si cucì il suo corredo matrimoniale mentre lei stessa, Rita, trascorse il suo viaggio di nozze.
Il loro medico (il dott. Ridola, l’archeologo) le consigliava di passare le giornate “all’aria aperta” per farle tornare l’appetito ed evitare di prendere le medicine.
Dopo pranzo, mangiavano fette di pane con la “rucola profumatissima” e facevano lunghe passeggiate, durante le quali raccoglievano le erbe aromatiche, gli asparagi, i cardoncelli e “le belle piante di malva”; con i fiori facevano i mazzetti mentre respiravano “il profumo dagli arbusti di timo”.
Quando pioveva, andavano a raccogliere le lumachine.
Ogni mattina il parroco – don Samuele Turi – diceva messa nella piccola cappella di S. Francesco da Paola, all’interno del cortile della Masseria. Arrivato con la mula, rimaneva sul posto per tutta la settimana, mangiando e dormendo con gli abitanti della casa.
La famiglia era composta dai genitori e da sei figli.
Dormivano insieme alla donna di servizio al piano superiore, mentre il prete dormiva al piano di sotto, dove si mangiava e si cucinava. Sempre al piano di sopra, in uno stanzino, c’era il gabinetto. Nel casone “facevano la giuncata”* (un formaggio fresco).
Le famiglie amiche venivano a trovarli col traino; la carrozza, il più delle volte, si fermava sul ponte sulla gravina (ai Tre Ponti) e si proseguiva la salita con la mulattiera.
Trascorrevano le loro giornate in campagna anche durante il periodo di scuola e “facevano i temi”.
La neviera era un “locale molto freddo”, dove si conservavano le bottiglie di vino e d’acqua, per tenerle al fresco.
Vi si scendeva da un viottolo nei pressi della Masseria. Là vicino, in un recinto, allevavano i conigli.
Da quel giorno, non ho più rivisto la signora Rita. E’ stato, però, per me motivo di gioia sapere che, alcuni giorni dopo, accompagnata dai figli, è ritornata in quei posti che l’anno vista crescere e diventare adulta. Lì è tornata a rivivere quei momenti e a riassaporare la fragranza del timo e gli odori della sua Murgia.

* Latte coagulato senza sale che si usa lasciar scolare fra giunchi e foglie di felci. Costituiva il primo coagulo della cagliata. Il casiero, servendosi di una schiumarola, asportava questo velo dalla superficie del liquido e lo deponeva in un recipiente, formando diversi strati separati fra loro da foglie di felce appena raccolte nel sottobosco. Era considerata un’autentica prelibatezza da offrire ai “grandi signori” al ritorno dalla transumanza. (da Massari e masserie : forme del lavoro e cultura materiale in Lucania / Mimmo Cecere; pag. 96.

© Francesco Gatti 2004